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Fine vita: il diritto alla morte medicalmente assistita

Fine vita: il diritto alla morte medicalmente assistita

Fine vita e il caso di Fabiano Antoniani

È ormai nota a tutti la vicenda di Fabiano Antoniani, in arte Dj Fabo, giovane dinamico e di talento, appassionato di moto e amante dei viaggi, che a seguito di un incidente nel giugno del 2014, divenuto cieco e tetraplegico, e tenuto in vita mediante sistemi di ventilazione meccanica e alimentazione artificiale, decise di porre fine alla sua agonia, ricorrendo alla pratica del suicidio assistito (all’epoca dei fatti la decisione di fine vita era legalmente riconosciuta dalla legislazione elvetica, ma non da quella italiana).

Lontano dalla sua casa e dai suoi affetti, accompagnato in Svizzera da Marco Cappato (attivista, esponente dell’associazione Luca Coscioni e promotore della campagna Eutanasia Legale), presso la sede dell’associazione Dignitas, luogo nel quale è possibile mettere fine alle proprie sofferenze attraverso un’azione autonoma che si traduce, di fatto, nella auto-somministrazione di un farmaco letale (il Pentobarbitale sodico, generalmente ingerito, ma in rare eccezioni dovute all’impossibilità di deglutire, somministrato per via endovenosa o tramite una sonda gastrica, mediante un pulsante che ne attiva l’immissione), il 27 Febbraio del 2017, Fabo viene sollevato dal suo – come egli stesso lo definisce – “inferno di dolore”.

Il giorno seguente Marco Cappato si costituisce, dando inizio ad uno storico dibattito che porterà la Corte Costituzionale a pronunciarsi in materia di punibilità dell’aiuto al suicidio e di illegittimità dell’equiparazione dello stesso al reato di istigazione, in condizioni di malattia grave ed irreversibile, analoghe a quelle di Fabiano Antoniani.

Tra maggio e luglio 2017, la procura di Milano richiede per ben due volte l’archiviazione del caso, ma il Gip, respingendo la richiesta, dispone l’imputazione coatta per Cappato, il quale opta per il giudizio immediato.

Il caso Cappato alla Consulta

Il nostro ordinamento non contempla il reato di tentato suicidio, ma punisce severamente sia chi agevola materialmente l’esecuzione dell’atto, sia i terzi che vi concorrono moralmente, rafforzando indirettamente il proposito suicida del soggetto debole; in tale ottica la norma che incrimina la condotta agevolatrice, non sembra essere irragionevole.

L’articolo 580 c.p. prevede, infatti, due fattispecie autonome: l’istigazione al suicidio e l’aiuto al suicidio; la ratio delle fattispecie, si riviene nella tutela che l’ordinamento appresta ai soggetti (deboli, depressi, malati, soli) che decidano di porre fine alla propria vita, anche a causa di interferenze di terzi (spinti da moventi egoistici).

Se è questa la ratio della norma, la stessa non sembra trovare giustificazione per quei casi in cui un soggetto, lucido e razionale, voglia metter fine ad una vita che non reputa più dignitosa, ma non possa materialmente compiere il suicidio, a causa delle proprie condizioni fisiche.

Nel giudizio penale a carico di Cappato, la Corte D’Assise investita, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui punisce la condotta agevolatrice del suicidio, anche quando l’agente non abbia rafforzato l’altrui proposito suicida, ma abbia solo aiutato materialmente un soggetto a porre fine alla propria vita.

La Corte Costituzionale, chiamata a rispondere sulla questione, sosteneva che l’ordinamento non possa incentivare le scelte suicide, ma debba proteggere quei soggetti che si trovino in situazioni di debolezza e difficoltà; evidenziava tuttavia, come il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisca per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nelle scelte terapeutiche, imponendogli come unica alternativa per congedarsi dalla vita, quella dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale, che spesso conduce alla morte con un processo lento e doloroso (quantunque coadiuvato dalla sedazione profonda), non rispettoso del concetto di dignità del paziente, e contrastante con i principi di ragionevolezza e uguaglianza.

Non si comprende infatti la ragione per cui, è obbligatorio rispettare la volontà libera e consapevole di un malato irreversibile, quando questa consista nell’interruzione dei trattamenti sanitari salva vita, e sia invece penalmente punita la condotta di chi asseconda la richiesta di aiuto al suicidio, da parte di un soggetto nelle stesse condizioni.

Nonostante tali salienti riflessioni, la Corte Costituzionale non era potuta addivenire ad una pronuncia di incostituzionalità dell’articolo 580 c.p., atteso che una soluzione in tali termini avrebbe comportato la liceità di quelle condotte, di qualsiasi soggetto che per svariati motivi, presta assistenza al suicidio, senza alcun controllo preventivo sull’effettiva sussistenza della capacità di autodeterminarsi del malato, e della irreversibilità della patologia che lo affligge.

La Corte Costituzionale invitava pertanto il legislatore ad intervenire, rinviando la trattazione al settembre 2019. 

Sentenza sul suicidio assistito o fine vita

Lo scorso 25 settembre l’Ufficio Stampa della Corte Costituzionale ha pubblicato un comunicato per manifestare, in attesa del deposito della sentenza, la posizione della Corte in merito alle questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte D’Assise di Milano sull’articolo 580 c.p., riguardanti la punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita.

La Corte ritiene non punibile ai sensi dell’articolo 580 c.p., a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità, al rispetto di determinati requisiti normativi (norme in materia di consenso informato sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua), e alla verifica da parte di una struttura pubblica del SSN, sia delle condizioni richieste, che delle modalità di esecuzione. 

Dibattiti suscitati dalla pronuncia: l’obiezione di coscienza

Il segretario generale della CEI ha manifestato la sua contrarietà alla depenalizzazione del suicidio assistito, affermando che la persona debole nella società moderna venga indotta ad uno stato di depressione tale da spingerla a suicidarsi perché non più in grado di far qualcosa della propria esistenza. A suo parere non si tratterebbe di una questione di religione, ma di dignità e civiltà; ha affermato: “Qui si creano i presupposti per una cultura della morte, in cui la società perde il lume della ragione” e per tale motivo, si dichiara pronto a sostenere l’obiezione di coscienza dei medici. Sulla questione si è espresso anche il presidente dell’ordine dei medici di Roma, Magi, il quale ha dichiarato che i medici si atterranno al proprio codice deontologico, che impone di non porre in essere atti che facilitino la morte. Ha poi suggerito che sia un pubblico ufficiale designato dagli organi competenti a porre fine alla vita del paziente e non un medico. In caso ciò non fosse possibile, i medici, chiamati a dover assistere al suicidio, continueranno a rispettare il codice deontologico, che consente loro di esercitare l’obiezione di coscienza. Secondo Magi, il medico ha l’obbligo di evitare sofferenze al paziente, ove necessario anche con terapie palliative, ma non può essere parte attiva nell’eutanasia o suicidio assistito. Secondo alcuni esponenti della Fnomceo la decisione di «garantire al paziente un diritto soggettivo che legittima una pretesa di assistenza al suicidio» ha come conseguenza di stravolgere la posizione di garanzia e lede «l’autonomia tecnico-operativa del medico, che ha fondamento negli articoli 9 e 33 della Costituzione.  Mai il medico è stato obbligato a eseguire un trattamento che non condivide, salvo che sia in gioco la vita». Su un altro fronte si pone invece Mario Riccio, colui che fu il medico di Welby, il quale riguardo all’obiezione di coscienza chiarisce che nessuno vuole imporre l’obbligo professionale di praticare la morte medicalmente assistita, ma che qualcuno debba garantire quello che ormai anche la Corte Costituzionale, ha sancito essere un diritto del paziente.

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